Ficca il naso

domenica 29 aprile 2018

La prima battaglia partigiana d'Italia





Col proclama Badoglio, che annunciava l'armistizio di Cassibile, si chiudeva la prima fase della seconda guerra mondiale per il nostro paese e iniziava l'occupazione tedesca, cui si oppose la Resistenza. Questo fenomeno interessò persone di diversa affiliazione politica e ideali: comunisti, socialisti, monarchici, cattolici, liberali, tutti accomunati dal profondo sentimento di avversione al nazifascismo. La prima battaglia fra forze partigiane italiane e truppe di occupazione tedesche avvenne fra il 14 e il 16 novembre sul monte S. Martino, una montagna situata fra la Valcuvia e il lago Maggiore, in provincia di Varese.

Il Gruppo Cinque Giornate

Il monte S.Martino, teatro della battaglia


L'annuncio dell'armistizio lasciò le forze armate allo sbaraglio e nella confusione. Ai nostri militari non rimaneva che scegliere se farsi disarmare e internare dai tedeschi, continuare a combattere al loro fianco, darsi alla macchia oppure opporre resistenza. Il migliaio di uomini del presidio di Portovaltravaglia erano al comando del tenente colonnello dei bersaglieri Carlo Croce, ufficiale di complemento già più volte decorato durante la Grande Guerra. Per alcuni giorni egli riuscì a tenere insieme la truppa, che però andava sfaldandosi irrimediabilmente, colta dalla confusione e dalla paura. Il Croce decise dunque di onorare il suo giuramento al re e riorganizzare le forze disponibili per opporsi all'occupazione nazista. Il 19 settembre il colonnello decise di spostare la base operativa lungo la Frontiera Nord, il sistema di fortificazioni approntate dopo la Prima Guerra Mondiale anche note come Linea Cadorna, ritenuta una posizione più difendibile delle posizioni nel paese di Roggiano, dove si erano inizialmente stabiliti. Ai pochi uomini sul monte se ne unirono in breve tempo molti altri: sbandati, civili, ex-prigionieri e militari. Tutti costoro andarono a formare il reparto Esercito Italiano-Gruppo Militare "Cinque Giornate" Monte San Martino di Vallata Varese. Il colonnello infatti aveva scelto di organizzare i suoi uomini come un reparto del regio esercito, dividendolo in tre compagnie una volta che furono raggiunti i numeri di armati sufficienti. Dato che inizialmente armi e munizioni scarseggiavano, il gruppo compì una serie di "missioni" per requisirle nelle caserme delle vicine Luino e Laveno, oltre che ad ottenerne dai militari sbandati che cercavano di attraversare il confine per riparare in Svizzera. Con lo stesso sistema vennero requisite alcuni automezzi e una buona quantità di cibo e materiali. Molti abitanti dei paesi circostanti aiutarono volontariamente Croce e i suoi uomini, dichiarando poi di essere stati vittime di rapina per prevenire le durissime rappresaglie che i tedeschi riservavano per chi collaborava con i "banditi". Complessivamente il gruppo poteva disporre di un moschetto a soldato, pistole per metà dei combattenti, 700 bombe a mano e 10 mitragliatrici Breda con 6.000 colpi di scorta. Oltre a automobili e camion, i partigiani potevano anche  contare sui due muli Adolfo e Benito. Il Comitato di Liberazione Nazionale di Varese entrò in contatto col colonnello, nonostante le difficoltà create da spie e delatori, tentando a più riprese di convincerlo ad abbandonare le posizioni del monte per adottare una strategia più mobile. Da soldato coraggioso e inquadrato qual era, il Croce intendeva seguire la dottrina militare e attendere il nemico a piè fermo. Infatti i suoi uomini profusero moltissime energie nel pulire sentieri, scavare trincee e riassestare le opere di fortificazione in stato di abbandono. Da parte dell'occupante si intensificò l'attività di spionaggio, facilitata dal fatto che i soldati, inquadrati secondo logiche e schemi prettamente militari, non avevano assunto nomi di battaglia come invece divenne consuetudine dei combattenti partigiani. Iniziarono anche le ricognizioni in loco sempre più frequenti, con anche alcune sparatorie fra i due schieramenti, nei quali caddero alcune SS.

La battaglia

Don Mario Limonta, il cappellano della formazione. Il religioso si batté con grande coraggio

L'attacco venne deciso per il 14 novembre, per impedire che durante l'inverno la formazione continuasse a ingrandirsi e a creare problemi all'occupante. Croce pensava che gli alleati sarebbero arrivati presto, e incapace di concepire quella che riteneva una ritirata disonorevole, non ascoltò i ripetuti appelli che il CLN di Varese fece per convincerlo ad abbandonare il monte. Il 12 un aereo da ricognizione sorvolò il monte per verificare la posizione delle fortificazioni e la consistenza numerica dei difensori. Dopo aver fatto confluire forze da Milano, gli occupanti dichiararono lo stato d'assedio, sospesero corse tranviarie e comunicazioni, e infine procedettero a rastrellare tutti gli uomini fra i 15 e i 60 anni nei paesi vicini, per evitare che aiutassero i partigiani durante o dopo l'attacco. Gli attaccanti potevano contare su 2000 uomini circa fra reparti di avieri appiedati, milizie fasciste e carabinieri che unitamente alla confinaria di Varese, accerchiarono la zona d’azione. Costoro potevano inoltre disporre di carri armati leggeri, mitragliatrici, supporto aereo, cannoncini e 300 autocarri. L'attacco inizia con una puntata tedesca, respinta, verso le 14. In seguito un ufficiale tedesco si fa avanti per parlamentare, permettendo così alle sue forze di avanzare approfittando del cessate il fuoco. Ma il colonnello intuisce il trucco e ordina a una pattuglia di aggirare e respingere gli assalitori, che si ritirano a valle. Nella nottata Croce posizionò un nutrito gruppo di militi sulla vetta, in quanto di primaria importanza per difendere l'intero monte: infatti i tedeschi concentrarono molti sforzi sul versante che sale da Arcumeggia.
La mattina del 15 le incursioni tedesche furono respinte da un intenso fuoco di mitragliatrice, che lasciò sul campo morti e feriti. Verso le 10 intervenne la Luftwaffe, e il monte venne bombardato per un'ora e mezza da tre apparecchi, bersagliati dal fuoco delle mitragliatrici dei difensori, che pure privi di armamento anti-aereo si ingegnarono a sollevare i treppiedi delle armi poggiandoli sulle spalle dei compagni per avere il giusto alzo. Gli sforzi dei partigiani furono coronati dal successo: uno degli apparecchi, colpito, dovette abbandonare il luogo dello scontro per effettuare un atterraggio di emergenza. Nonostante la tenace resistenza però, gli attaccanti riuscirono ad occupare la vetta grazie alla schiacciante superiorità in numeri e mezzi. Dalla posizione sopraelevata i tedeschi potevano ora fare fuoco sui difensori più in basso, che si ritirarono nelle casematte. Per tutta la giornata i soldati difesero la strada che porta al S. Michele, nonostante la disparità fra le forze in campo, ma dovettero infine ritirarsi nelle caverne.
Il 16 la situazione appariva drammatica: le munizioni scarseggiavano, il morale era basso e molti uomini avevano disertato. Particolarmente deludenti furono gli inglesi e gli americani presenti, che abbandonarono le posizioni senza nemmeno essere attaccati. Il tenente Hauss suggerì la resa al Croce, che rifiutò energicamente. Molti difensori invece rimasero colpiti dal coraggio mostrato dai loro avversari, che si esponevano al fuoco per recuperare un commilitone ferito rischiando a loro volta la vita. La forte posizione difensiva permise ai soldati di Croce di resistere fino all'imbrunire, quando il colonnello diede l'ordine di ritirarsi. Messe fuori uso le proprie autovetture e minati i cunicoli del forte, col favore delle tenebre e la probabile connivenza dei carabinieri, Croce e i suoi riuscirono a sfuggire all'accerchiamento e riparare in Svizzera.

Dopo la battaglia

Partigiani catturati sotto il tiro dei fucili
Una cinquantina di partigiani furono catturati e portati via per essere interrogati e seviziati dalle SS, mentre altri furono fucilati sul posto e gettati in fosse comuni. Dalle testimonianze di chi nelle settimane seguenti si recò sul monte per recuperare le salme dei caduti emerge che furono 37 i partigiani caduti in azione, mentre i tedeschi dichiararono solo 7 morti. Sicuramente gli attaccanti caduti non furono migliaia, come scrisse don Limonta, ma si stima almeno 200-300. Infatti gli abitanti del luogo assistettero all'intensa attività di recupero delle salme che si protrasse con dispiego di automezzi per diversi giorni. Non contenti di aver sgominato la "banda", i tedeschi portarono sul S. Martino tre ordigni e fecero esplodere le fortificazioni di Vallalta e la chiesetta sulla sommità della vetta. Il colonnello Carlo Croce scelse di non attendere la fine della guerra al sicuro in Svizzera, ma tentò a più riprese di tornare in Italia per continuare la lotta armata contro l'invasore. Il 13 luglio 1944, mentre con sei compagni cercava di passare il confine, fu coinvolto in uno scontro a fuoco con una pattuglia della milizia confinaria in Val Togno. Ferito gravemente a un braccio, fu fatto prigioniero e portato all'ospedale di Bergamo, dove subì l'amputazione dell'arto offeso. Nonostante le orrende sevizie e torture inflitte dalle SS, non rivelò le informazioni che avrebbero potuto condannare i suoi compagni di lotta, spirando il 24 luglio del 1944. Per i suoi atti di valore ed eroismo gli è stata concessa la medaglia d'oro alla memoria con la seguente motivazione.

«Comandante di distaccamento del terzo reggimento bersaglieri a Porto Val Travaglia, con i suoi soldati e con alcuni patrioti organizzava, dopo l’armistizio, la resistenza all’invasore tedesco mantenendo le posizioni fortificate di San Martino di Vallalta. Più volte rifiutate le offerte del nemico, il 13 novembre 1943, con soli 180 uomini, sosteneva per quattro giorni di furiosa lotta l’attacco di 3000 tedeschi, infliggendo gravi perdite, abbattendo un aereo, distruggendo alcune autoblinde incappate su campo minato. Ferito e serrato senza apparente via di scampo, con ardita azione, sì apriva la strada fino al confine svizzero, trasportando gli invalidi e ritirandosi per ultimo dopo aver fatto saltare il forte. Insofferente di inazione e dopo un primo fallito tentativo di rientrare in Italia, varcava nuovamente il confine con sei compagni. Attorniato da nemici e gravemente ferito ad un braccio cadeva prigioniero. Prelevato dalle SS. dall’ospedale di Sondrio, poche ore dopo di avere subita l’amputazione del braccio destro, veniva barbaramente torturato senza che gli aguzzini altro potessero cavargli di bocca se non le parole: « Il mio nome è l’Italia ». Salvava con il silenzio i compagni, ma, portato irriconoscibile all’ospedale di Bergamo, chiudeva nobilmente poche ore dopo la sua fiera vita di soldato»

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domenica 22 aprile 2018

Macchine da guerra bizzarre





La guerra è stata questione di uomini per millenni. Dalla galea all'arte ossidionale, era la forza data da masse di uomini agguerriti a portare un generale alla vittoria. Una fortezza non era nulla se non difesa da una guarnigione altrettanto valida. Gli armamenti erano funzionali a rendere il milite capace di infliggere il più gran danno possibile e sopravvivere. Ma non è sempre stato così: inventori, ingegneri, generali capaci hanno affiancato al contributo fisico macchine da guerra dalle funzionialità diverse come variegato poteva essere un conflitto. Se molte sono diventate classici conosciuti da tutti, vi sono state anche alcune stravaganze (spesso non così efficaci) partorite dalla mente di uomini fantasiosi quanto avventati. Ecco dunque cinque esempi tra le macchine da guerra più bizzarre.

Il Cannone di Orban


Per abbattere le possenti mura di Costantinopoli, i turchi di Maometto II avevano bisogno di qualcosa di più di un semplice cannone. La città, ultimo bastione dell'ormai defunto impero romano d'Oriente, aveva resistito per oltre mille anni a qualsiasi tentativo di assedio. La soluzione si presentò un giorno alla porta del sultano sotto forma di un uomo, un cristiano ungherese di nome Orban. L'artigliere aveva già offerto i suoi servigi al basileus, ma rifiutato perché troppo caro, aveva deciso di rivolgersi allora al sultano. Ottenuti i fondi necessari, l'ungherese creò un vero e proprio mostro: Basilica. Quest'arma era lunga più di 8 metri, aveva una bocca di fuoco dal diametro di 760 mm e le sue pareti erano di bronzo spesso 200 mm. Per trasportarla, smontata, erano necessari 60 buoi e per farlo funzionare servivano 400 serventi. Si dice che al momento di collaudare l'arma, il sultano avvisò i contadini entro diverse miglia che avrebbero udito un terrificante boato e di non spaventarsi. Fiducioso nelle sue artiglierie e nel suo esercito, Maometto II assediò dunque Costantinopoli. Basilica ebbe un effetto psicologico tremendo, per la sua mole immensa e il terribile boato che produceva. I suoi effetti pratici però erano mitigati dalla cadenza di fuoco: non più di 7 colpi al giorno, per le lunghe operazioni di ricarica e per permettere al bronzo di raffreddarsi, onde evitare avarie. L'aver portato gli operai della fonderia dalla quale era uscita sul campo per ripararla di volta in volta non servì a prevenire che il gigantesco cannone esplose, uccidendo anche il suo ambizioso e geniale creatore Orban.

Il Hwacha



L'Estremo Oriente detiene il primato per moltissime invenzioni, dalla polvere da sparo alla stampa. E proprio qui nascono i primi lanciarazzi multipli, molti secoli prima della loro introduzione in Europa. Derivante dallo Huo Che, un'arma inventata e usata in Cina durante il periodo della dinastia Han, lo Hwacha è un carretto a due ruote che trasporta un quadro di legno dotato di molti fori. Adottato dai coreani per difendersi dalle invasioni giapponesi fra il 1592 e il 1598, questa macchina da guerra era in grado di sparare fino a 200 singijeon alla volta. Con questo termine si indica un tipo di proiettili che può essere a sua volta suddiviso in tre tipi: grande, medio, piccolo. Un singjeon grande è un razzo lungo mezzo metro, lanciabile da un'arma individuale o uno hwacha, in grado di percorrere un km prima di esplodere sul bersaglio. Uno medio invece è lungo solo 13 cm e in grado di percorrere non più di 150 m, ma mantiene una forza esplosiva non trascurabile. Quelli piccoli invece sono semplici frecce, scagliate però dalla propulsione fornita da una piccola carica di polvere ad essa attaccata. 

Le Ruote Assassine


Se foste ungheresi, il nome Eger vi sarebbe familiare. Nel 1552 infatti un'armata di 35.000 turchi assediò questo castello nel nord dell'Ungheria, difeso dai 2.000 uomini di Istvàn Dobò. Dopo 39 giorni di sanguinosi assalti e combattimenti, i turchi levarono l'assedio, decimati e demoralizzati. Ci furono vari fattori che portarono alla disfatta, fra i quali l'ingegno di un ufficiale, Gergely Bornemissza. La sua idea era semplice ma tremendamente efficace: riempire alcune ruote di mulino ad acqua con barili di polvere da sparo, zolfo e pece, accenderle e farle rotolare verso il campo nemico, più in basso rispetto al castello. Questi rudimentali e primitivi missili incendiari si rivelarono molto efficienti: alle tremende esplosioni seguirono incendi devastanti che provocarono numerose perdite e intaccarono il morale degli assedianti, che infine dovettero desistere. 

Il Gancio d'Assedio


Il gancio si è dimostrato essere una sorta di must per gli assedi a piazzeforti, sia in funzione difensiva che offensiva. In epoca medievale si parla di lunghe pertiche uncinate adatte a ribaltare le arieti portate avanti dal nemico, i cui colpi venivano attutiti tramite semplici balle di paglia tenute dietro il portone. Ma la fantasia dei genieri non si fermava a ciò: i ganci potevano tranciare le scale, impedire ai pontali delle torri d'assedio di calare sulle merlature, addirittura di acciuffare dei nobili nemici per la collottola e trascinarli oltre le merlature per un ricco riscatto! I romani sfruttarono il gancio,  di cui Polibio ci descrive lucidamente l'utilizzo, chiamato falx muralis, anche per funzioni offensive. Cesare nel De Bello Gallico lo descrive infatti quale un lungo tronco tornito, alla cui estremità si trovavano due falci trasversali affilate. I soldati all'altro capo, tramite un sistema di corde, facevano ruotare il macchinario, che grattava via la calce atta a tenere insieme mattoni e mura, o per danneggiare le palizzate. Non sappiamo davvero quanto fosse efficace un tale "spazzolino" d'assedio, però potremmo pensare che essere citato dallo stesso Cesare possa essere un indizio per la sua effettiva utilità.

Lo Cheirosiphon


Tutti conoscono, almeno per sentito dire, della potenza distruttiva del fuoco greco, che dagli studi recenti si ritiene fosse una miscela di pece, salnitro, zolfo, petrolio, nafta, calce viva. Sebbene di solito fosse stato utilizzato come una sorta di granata incendiaria, rinchiuso in grandi otri di pelle o  in dei semplici contenitori di terracotta, i bizantini si spinsero ancora più avanti nell'utilizzo di questa temibile arma da guerra, creando degli antesignani lanciafiamme chiamati siphon. Si descrivono modelli portatili, utilizzati nel 1400, ma è l'uso principale sembra essere nel combattimento navale tra dromoni per appiccare fuoco agli scafi avversari (considerando che tra il calafataggio dei comenti, le velature e le sartie il risultato risultava devastante, come nell'assedio di Costantinopoli del 717).
Narra Tucidide anche dell'utilizzo di un gigantesco lanciafiamme da parte dei beoti durante l'assedio di Delio nel 424 a.c. consistente in un tronco svuotato, montato all'interno di una passerella coperta dotata di ruote, che dopo essere stato spinto nei pressi delle mura, veniva agganciata alla sua estremità un calderone di metallo. Esso pare contenesse una miscela simile al fuoco greco (non la stessa e altrettanto efficace), che tramite un mantice sprigionava un getto di fiamme contro mura e palizzate. Non conosciamo esattamente gli effetti e l'efficacia di tale armamento, ma sappiamo che gli ateniesi attestati a Delio capitolarono dopo 16 giorni di duro assedio.

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domenica 15 aprile 2018

La cavalleria: i miti da sfatare


Diciamolo, è indubbio: la cavalleria possiede una portata epica capace di scaldare il cuore di qualsiasi amante della storia o del fantasy. Merito anche della cinematografia (la carica dei rohirrim prima su tutte), le forze militari in arcione occupano un posto speciale nella romanzistica fantasy, che però, allo stesso modo in cui peccano tanti registi, raramente conosce il reale iter di uno scontro a cavallo. 
Esistono certo numerose variabili da considerare, dopotutto parliamo di un ambito artistico e non di storiografia o rievocazioni, ma perché non sfatare qualche mito, anche solo per curiosità personale?
Ecco a voi allora i tre grandi errori sulla cavalleria!

Iniziamo con una bella contestualizzazione: la cavalleria non è sinonimo di medioevo. Ovviamente si parla di cavalleria nel senso di unità militare in arcione ad animale di razza equina (sebbene esistano pure unità cammellate o addirittura su zebre) non dell'etica cavalleresca dei nobili europei. Infatti sia in epoca antica che in epoca moderna la cavalleria ha giocato un ruolo fondamentale nel panorama bellico di quasi l'intero globo terracqueo, nonostante l'introduzione in alcuni scenari delle armi da fuoco. Nell'immaginario collettivo si pensa sempre al cavaliere medievale rinchiuso in un'armatura di piastre in sella al cavallo bardato, ma oltre che essere una figura più rinascimentale, è stata soltanto una delle tante forze a cavallo, neppure una delle più importanti! Basti pensare ai catafratti parti, alle orde mongole, agli ussari settecento ottocenteschi o ai raitars svedesi. Che fossero armati di archi, di lance, di fruste, pistole o moschetti, i cavalieri hanno sempre costituito una forza importante in ogni esercito degno di tale nome. I motivi sono semplici: mobilità, rapidità, forza d'impatto. La cavalleria leggera erano gli occhi e le orecchie di un'armata in marcia (considerate che mezzi di comunicazione  rudimentali possedevano i generali pre seconda guerra mondiale), quella armata di equipaggiamento a distanza poteva conquistare posizioni invidiabili in poco tempo (pensate ai dragoni, unità di fanteria armata di carabina, almeno in età napoleonica, che smontava per sparare contro un bersaglio) e infine la potenza con cui una cavalleria pesante travolgeva qualsiasi unità a piedi senza alcuna coesione, tale da disperderla in pochi minuti e costringerla a una rotta. Non solo! La cavalleria era spesso l'unico mezzo per vincere davvero una battaglia: poiché i morti nello scontro erano pochi rispetto a quanto si possa immaginare (sia con armi da fuoco che non) l'inseguimento del nemico in rotta rappresentava il momento adatto per infliggere un colpo mortale al morale e alle truppe avversarie. Chi allora poteva se non la cavalleria occuparsi di questo compito glorioso? Vorrei ad esempio far notare quante perdite abbiano causato i temuti cosacchi alle truppe napoleoniche in ritirata durante la spedizione in Russia.


In cosa sbaglia così spesso la nostra cinematrografia, dunque?
Per prima cosa, la carica. Sembrerà strano, ma gettarsi al galoppo contro una formazione nemica è il miglior modo per farsi massacrare. La cavalleria doveva mantenere coesione per sfruttare appieno la forza d'impatto, non doveva fare stancare troppo i destrieri (che non erano delle motociclette), infine un eccessivo urto avrebbe potuto danneggiare più i cavalieri che il nemico, visto che per sopraffare un fante non serviva tanto la velocità, quanto la massa del cavallo e il vantaggio dell'altezza. Bisogna poi considerare che i cavalli valevano tanto (anzi valgono), in particolare quelli da guerra: sforzarli in modo esagerato poteva avere conseguenze devastanti non solo per la salute del cavaliere, ma anche per le sue finanze, visto che nella stragrande maggioranza dei casi era lui stesso a dover procurarsi il cavallo. Inoltre il campo di battaglia raramente era un terreno regolare, pulito e ben disteso, quindi la carica doveva tenere conto di eventuali ostacoli capaci di azzoppare, o peggio, il prode equino.

Seconda cosa, l'impatto. Parlare di impatto non è semplice, è facile generalizzare troppo: basti pensare alla differenza tra la staffa e la mancanza della stessa, tra la resta, la carica ginocchio contro ginocchio oppure tutte le numerose formazioni di cavalleria descritte nei manuali ottecenteschi. Per non precipitare nei tecnicismi della tecnica militare, mi limiterò a illustrare un concetto ridotto certo all'osso: dimenticatevi il 90% delle scene girate con effetti speciali al computer. Scordatevi i rohirrim che abbattono orchi su orchi con la mera forza del cavallo, cancellate dalla mente la battaglia dei due bastardi in Got dove i cavalli si cappottano uno contro l'altro. I cavalli sono bestie intelligenti, nonché molto timorose: mai si getterebbero contro un altro loro simile in un atteggiamento così suicida, senza contare il cavaliere stesso. In realtà l'impatto poteva aversi in due modi: contro la fanteria il cavaliere diventava una sorta di rullo compressore, lento e inesorabile, capace di spingere indietro i fanti e calare l'arma sulle spalle degli avversari. Un cavallo poteva calpestare un uomo, ma certo non poteva gettarne a terra a ripetizione come fossero birilli. Il povero equino potrà anche essere forte, però un tale impatto lo sentirebbe anche lui! Il secondo metodo era cavalli contro cavalli: in questo caso gli animali tentano di scartare sul fianco del destriero avversario, non colpirlo in pieno. In pratica uno scontro tra cavalieri diventava una questione di nervi, formazione e abilità mista all'equipaggiamento del cavaliere, che duellava contro l'altro. Per questo la cavalleria pesante era notoriamente avvantaggiata in tali scontri, visto che il passeggero era molto più difficile da ferire rispetto al corrispettivo leggero. Un'altra discriminante poteva essere la qualità del cavallo o la semplice mole.


Infine, ultimo mito più da specificare che da sfatare, è il ruolo della cavalleria in battaglia: per questo ultimo punto entro nello specifico, alias l'epoca medievale, che è quella va più di moda negli scrittori di fantasy e nel panorama artistico attuale. Il cavallo era merce rara, non solo perché appannaggio dei nobili, ma proprio perché di cavalli ve ne erano pochi e costosi. Aggiungiamo pure che chi li montava era il figlio di un nobile, ecco che il numero di operazioni belliche della cavalleria si restringe. 
In epoca medievale, almeno nel panorama europeo, le battaglie campali erano pochissime, superate da saccheggi, assedi, schermaglie. Nelle battaglie campali, poi, la tipica cavalleria feudale poteva trovarsi limitata nell'operare a causa del meteo, del territorio irregolare, del semplice istinto di auto conservazione. Un muro di picche innalzato da contadini poteva diventare un ostacolo insormontabile, nessun cavaliere ci avrebbe mai caricato contro (salvo alcuni casi di stupidità estrema o semplici errori di valutazione) al contrario di come si può vedere in tanti film pseudo storici. Ancora una volta il cavallo diventava un mezzo per muoversi sul campo di battaglia, per esplorare le zone, per darsi al saccheggio, per proteggere la retroguardia o anticipare l'avanguardia, tutti ruoli che la cavalleria leggera assolveva con maggiore prontezza dei cugini pesanti. Ciò significa che i tanto amati scatoloni di ferro a cavallo fossero inutili? Assolutamente no: le armi da tiro (anche le armi da fuoco, notorialmente imprecise fino a metà dell'ottocento) non potevano quasi mai scalfire le corazze, i nemici sprovvisti di armi in asta e di una formazione erano prede facili nella mischia (considerando che per tutto l'alto medioevo le formazioni semiprofessionali capaci di mantenere la disciplina per reggere uno scontro avverso a unità in arcione erano rarissime) e infine il mero effetto psicologico di questi corazzati ante litteram poteva gettare nel panico le milizie feudali deputate a respingerli.

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domenica 8 aprile 2018

Perché i samurai non usavano lo scudo?


A chi ha avuto a che fare con le cose militari del Giappone, anche solo per aver visto un film, letto un libro o giocato a un videogioco ambientato durante l'era Sengoku, il periodo che dal 1467 al 1603 vide la guerra civile fra i vari daimyo, molto spesso capita di trovarsi a porsi questa domanda. Per noi europei lo scudo ha avuto un ruolo centrale per gran parte della nostra storia militare, dall'antichità fino all'età moderna. Basta pensare a legionari e opliti, protetti dai grandi scudi, o a vichinghi e rodoleri per constatare quanto questo mezzo di difesa (ma anche offesa) occupi un posto importantissimo nel nostro immaginario. Non si tratta nemmeno di una peculiarità dell'estremo Oriente: infatti lo scudo era diffuso dalla Cina all'Indonesia, e perfino in Giappone fino a un certo periodo. Dunque per quale motivo i guerrieri del sol levante hanno smesso di utilizzarlo?

Prima di cominciare è meglio fare una precisazione però: i samurai non abbandonarono del tutto l'uso di coperture in battaglia. Infatti continuarono ad usare i tate, grandi scudi di legno o bambù, molto simili ai nostri pavesi, per coprire gli arcieri e gli archibugieri. Inoltre, piccoli scudi portati a mano e chiamati tedate continuarono ad essere usati sporadicamente in incursioni, attacchi notturni e schermaglie.
Samurai che si proteggono dietro dei tate

Quando si parla di fenomeni simili cercare un solo elemento determinante è spesso fuorviante: quasi sempre vi sono tutta una serie di motivi, grandi e piccoli, che concorrono a determinare un particolare fenomeno o evento.
Alcuni affermano che lo scudo sia caduto in disuso perché era troppo ingombrante da usare e perché disonorevole, in quanto era un oggetto e non l'abilità del guerriero a proteggere. Mi trovo in disaccordo con entrambe le posizioni, innanzitutto perché con "scudo" intendiamo tutta una serie di oggetti che vanno dal grande ed effettivamente pesante scutum romano ai leggeri e piccoli buckler. Inoltre questi strumenti erano tutt'altro che poco maneggevoli e ingombranti, tanto che potevano essere anche usati per offendere, oltre che per difendere. L'umbone, la parte centrale dello scudo fatta in ferro, oltre a costituire il pezzo più robusto dello scudo, poteva anche essere usato per colpire gli avversari.
Per quanto riguarda il codice d'onore dei samurai, il famoso bushido, ritengo che i giapponesi non sarebbero stati così miopi da abbandonare un'arma utile solo per una questione d'onore: infatti le armi da fuoco e altri mille stratagemmi, anche se in teoria disonorevoli, erano usati con grande frequenza in tutto l'arcipelago.

I motivi per cui caddero in disuso sono a mio avviso molteplici. Con l'introduzione del cavallo in Giappone e l'emergere della figura del samurai come guerriero a cavallo armato principalmente di arco, la fanteria gradualmente venne relegata a un ruolo secondario e si preferì armarla con lunghi yari (lance), archi e poi archibugi. L'uso di armi a due mani dunque precludeva l'utilizzo di scudi, in modo simile ai macedoni, che passarono dal grande oplon greco a uno scudo molto più piccolo per potere reggere la lunga sarissa con entrambe le mani. Bisogna inoltre considerare l'utilizzo primario dello scudo, ovvero quello di difesa contro le armi a distanza. In Giappone non troviamo armi di potenza paragonabile all'arco lungo inglese o alle balestre europee o cinesi, rendendo così il fante ben protetto dalla sua sola armatura. Ricordiamoci che l'arco in Europa cadde in declino a causa della diffusione e del miglioramento delle corazze dopotutto.
I samurai imparavano a padroneggiare diverse armi, come lo yari, lo yumi (arco) e la katana, tutte utilizzate a due mani. La corazza nipponica era abbastanza comoda da permettere l'uso dell'arco, e abbastanza robusta da proteggere da frecce, lame e persino da colpi di arma da fuoco, almeno fino a una certa distanza. L'armatura del samurai (a livello generale, ve ne erano di diversi tipi) aveva implementato la funzione di scudo, affidata agli spallacci dalla tipica forma quadrata e molto grandi. Questi infatti non erano fissati all'armatura, bensì legati, per diminuire l'ingombro e permettere di toglierli velocemente.
Un samurai a cavallo. Si notino gli spallacci quadrati e di grandi dimensioni
Dunque gli scudi non erano necessari per fermare le frecce prima, e non erano di grande aiuto contro le pallottole poi. Oltre a questi motivi di natura pratica, bisogna anche considerare lo status mentis di daimyo e samurai, un'operazione non facile per noi moderni coadiuvati dal senno di poi. Innanzitutto la mentalità militare dell'epoca, impregnata degli insegnamenti di Sun Tsu, prediligeva l'attacco alla difesa. Agli assedi si preferivano battaglie campali, e a formazioni protette da muri di scudi si preferivano equipaggiate per l'offesa. Lo stesso spirito lo ritroviamo nella Seconda Guerra Mondiale, quando gli ufficiali, discendenti dei samurai, armati di katana guidavano le cariche banzai della fanteria imperiale, convinti (come molti anche in altri paesi) che lo slancio morale, l'élan del singolo potesse avere la meglio sulla macchina.


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